Annibale Covini Gerolamo

Annibale Covini Gerolamo, 
Pinocchio

Le avventure di
Pinocchio




di Carlo Collodi





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Pinocchio Disney

Capitolo    XVII





Pinocchio
mangia lo zucchero,
ma non vuol purgarsi:
però
quando vede i becchini
che vengono a portarlo via,
allora si purga.
Poi dice una bugia
e per gastigo
gli cresce il naso.



Appena i tre medici
furono usciti di camera,
la Fata
si accostò a Pinocchio,
e,
dopo averlo toccato
sulla fronte,
si accòrse
che era travagliato
da un febbrone da non si dire.

Allora sciolse
una certa polverina bianca
in un mezzo bicchier d’acqua,
e porgendolo al burattino,



gli disse amorosamente:

FA.   Bevila,
e in pochi giorni
sarai guarito.



Pinocchio
guardò il bicchiere,
storse un po’ la bocca,
e poi dimandò
con voce di piagnisteo:

P. È dolce o amara?

FA. È amara,
ma ti farà bene.

P. Se è amara non la voglio.

FA. Da’ retta a me:
bevila.

P. A me l’amaro non mi piace.

FA. Bevila:
e quando l’avrai bevuta,
ti darò
una pallina di zucchero,
per rifarti la bocca.

P. Dov’è la pallina di zucchero?

FA. Eccola qui


disse la Fata,
tirandola fuori
da
una zuccheriera d’oro.

P. Prima
voglio la pallina di zucchero,
e poi
beverò quell’acquaccia amara...

FA. Me lo prometti?

P. Sí...


La Fata
gli dètte la pallina,
e Pinocchio,
dopo averla sgranocchiata
e ingoiata in un àttimo,
disse leccandosi i labbri:

P. Bella cosa
se anche lo zucchero
fosse una medicina!...
Mi purgherei tutti i giorni.

FA. Ora
mantieni la promessa
e bevi queste
poche gocciole d’acqua,
che ti renderanno la salute.


Pinocchio prese
di mala voglia
il bicchiere in mano
e vi ficcò dentro
la punta del naso:
poi se l’accostò alla bocca:
poi tornò a ficcarci
la punta del naso:
finalmente disse:

P. È troppo amara!
troppo amara!
Io non la posso bere.

FA. Come fai a dirlo
se non l’hai
nemmeno assaggiata?

P. Me lo figuro!
L’ho sentita all’odore.
Voglio prima
un’altra pallina di zucchero...
e poi la beverò!


Allora la Fata,
con tutta la pazienza
di una buona mamma,
gli pose in bocca
un altro po’ di zucchero;
e dopo gli presentò daccapo
il bicchiere.

P. Cosí non la posso bere!



disse il burattino,
facendo mille smorfie.

FA. Perché?

P. Perché mi dà noia
quel guanciale
che ho laggiú
su i piedi.



La Fata
gli levò il guanciale.

P. È inutile!
Nemmeno cosí la posso bere.

FA. Che cos’altro
ti dà noia?

P. Mi dà noia
l’uscio di camera,
che è mezzo aperto.



La Fata andò,
e chiuse
l’uscio di camera.

P. Insomma

gridò Pinocchio,
dando in uno
scoppio di pianto

quest’acquaccia amara,
non la voglio bere,
no, no, no!...



FA. Ragazzo mio,
te ne pentirai...

P. Non me n’importa...

FA. La tua malattia
è grave...

P. Non me n’importa...

FA. La febbre
ti porterà
in poche ore
all’altro mondo...

P. Non me n’importa...


FA. Non hai paura
della morte?

P. Nessuna paura!...
Piuttosto morire,
che bevere
quella medicina cattiva.



A questo punto,
la porta della camera
si spalancò,
ed entrarono dentro
quattro conigli neri
come l’inchiostro,
che portavano
sulle spalle
una piccola bara
da morto.

P. Che cosa volete
da me?



gridò Pinocchio,
rizzandosi
tutto impaurito
a sedere sul letto.

CN. Siamo venuti
a prenderti



rispose
il coniglio piú grosso.

P. A prendermi?...
Ma io
non sono ancora morto!...

CN. Ancora no:
ma ti restano
pochi minuti di vita,
avendo tu
ricusato di bevere
;la medicina,
che ti avrebbe
guarito della febbre!...


P. O Fata mia,
o Fata mia!



cominciò allora a strillare
il burattino

datemi subito quel bicchiere...
Spicciatevi,
per carità,
perché non voglio morire,

no...
non voglio morire.



E preso il bicchiere
con tutte e due le mani,
lo votò in un fiato.

CCNN. Pazienza!



dissero
i conigli.

CCNN. Per questa volta
abbiamo fatto il viaggio
a ufo.


E tiratisi di nuovo
la piccola bara sulle spalle,
uscirono di camera
bofonchiando e mormorando
fra i denti.



Fatto sta che
di lí a pochi minuti,
Pinocchio saltò giú dal letto,
bell’e guarito;
perché
bisogna sapere
che i burattini di legno
hanno il privilegio
di ammalarsi di rado
e di guarire
prestissimo.

E la Fata,
vedendolo correre
e ruzzare per la camera,
vispo e allegro
come un gallettino
di primo canto,

gli disse:

FA. Dunque
la mia medicina
t’ha fatto bene davvero?

P. Altro che bene!
Mi ha rimesso al mondo!...

FA. E allora
come mai
ti sei fatto tanto
pregare a beverla?

P. Egli è
che
noi ragazzi
siamo tutti cosí!
Abbiamo piú paura
delle medicine
che del male.

FA. Vergogna!
I ragazzi
dovrebbero sapere
che un buon medicamento
preso a tempo,
può salvarli
da una grave malattia
e fors’anche dalla morte...
P. Oh!
ma un’altra volta
non mi farò tanto pregare!
Mi rammenterò
di quei conigli neri,
con la bara sulle spalle...
e allora piglierò subito
il bicchiere in mano,
e giú!...


FA. Ora
vieni un po’ qui
da me,
e raccontami
come andò
che ti trovasti
fra le mani degli assassini.

P. Gli andò,
che il burattinaio
Mangiafoco
mi dètte
cinque monete d’oro,
e mi disse:

«To’, portale al tuo babbo!»,

e io,
invece,
per la strada
trovai una Volpe e un Gatto,
due persone molto per bene,
che mi dissero:

«Vuoi che codeste monete
diventino mille e duemila?
Vieni con noi,
e ti condurremo
al Campo dei miracoli».


E io dissi:

«Andiamo»;

e loro dissero:

«Fermiamoci qui
all’osteria del Gambero rosso,
e dopo la mezzanotte
ripartiremo».
E io,
quando mi svegliai,
loro non c’erano piú,
perché erano partiti.

Allora io
cominciai a camminare
di notte,
che era un buio
che pareva impossibile,
per cui trovai per la strada
due assassini
dentro due sacchi da carbone,
che mi dissero:

«Metti fuori i quattrini»;

e io dissi:

«non ce n’ho»;

perché le monete d’oro
me l’ero nascoste in bocca,
e uno degli assassini
si provò a mettermi
le mani in bocca,
e io con un morso
gli staccai la mano
e poi la sputai,
ma invece di una mano
sputai uno zampetto di gatto.



E gli assassini
a corrermi dietro,
e io corri che ti corro,
finché mi raggiunsero,
e mi legarono per il collo
a un albero di questo bosco
col dire:

«Domani torneremo qui,
e allora sarai morto
e colla bocca aperta,
e cosí ti porteremo via
le monete d’oro
che hai nascoste
sotto la lingua».


FA. E ora
le quattro monete
dove le hai messe?


gli domandò la Fata.

P. Le ho perdute!



rispose Pinocchio;
ma disse una bugia,
perché invece
le aveva in tasca.

Appena detta la bugia
il suo naso,
che era già lungo,
gli crebbe subito
due dita di piú.

FA. E dove le hai perdute?

P. Nel bosco qui vicino.


A questa seconda bugia,
il naso
seguitò a crescere.

FA. Se le hai perdute
nel bosco vicino


disse
la Fata

le cercheremo e le ritroveremo:
perché
tutto quello che si perde
nel vicino bosco,
si ritrova sempre.

P. Ah!
ora che mi rammento bene



replicò il burattino
imbrogliandosi

le quattro monete
non le ho perdute,
ma senza avvedermene,
le ho inghiottite
mentre bevevo
la vostra medicina.


A questa terza bugia,
il naso
gli si allungò
in un modo cosí straordinario,
che
il povero Pinocchio
non poteva piú girarsi
da nessuna parte.

Se si voltava di qui,
batteva il naso nel letto
o nei vetri della finestra,

se si voltava di là,
lo batteva nelle pareti
o nella porta di camera,

se alzava un po’ piú il capo,
correva il rischio
di ficcarlo in un occhio
alla Fata.



E la Fata lo guardava
e rideva.

P. Perché ridete?



gli domandò il burattino,
tutto confuso e impensierito
di quel suo naso
che cresceva a occhiate.

FA. Rido
della bugia che hai detto.

P. Come mai sapete
che ho detto una bugia?

FA. Le bugie,
ragazzo mio,
si riconoscono subito,
perché ve ne sono
di due specie:

vi sono le bugie
che hanno le gambe corte,
e le bugie
che hanno il naso lungo:

la tua
per l’appunto
è di quelle
che hanno il naso lungo.


Pinocchio,
non sapendo piú
dove nascondersi
per la vergogna,
si provò a fuggire di camera;
ma non gli riuscí.

Il suo naso
era cresciuto tanto,
che
non passava piú dalla porta.

🌝    🌞    🌟




Le avventure di Pinocchio
di:
CARLO COLLODI
editore:
Felice Paggi,
Firenze, 1883

Dominio Pubblico

Testo originale
accentato da:
Annibale Covini Gerolamo

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